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martedì 22 luglio 2014

Paolo Sarpi : discussione conciliare se la messa sia sacrificio di Cristo o solamente un ricordo (Istoria Concilio Tridentino)

Nell'esamine degli articoli è provato che la messa è sacrificio, ma con gran
diversità di pareri


Nelle discussioni de' teologi furono uniformi tutti in condannar d'eresia le
openioni de' protestanti ne' proposti articoli, e brevemente s'ispedivano degl'altri:
longhissimi furono i discorsi di ciascuno in provare che la messa sia sacrificio, nel quale
s'offeriva Cristo sotto le specie sacramentali: le raggioni principali da loro usate erano
che Cristo è sacerdote secondo il rito di Melchisedech, ma Melchisedech offerí pane e
vino, adonque il sacerdozio de Cristo conviene che sia con sacrificio di pane e vino. Di
piú, l'agnel pascale fu vero sacrificio e quello è figura dell'eucaristia, onde quella ancora
conviene che sia vero sacrificio. Appresso per la profezia di Malachia, per bocca del
quale Dio rifiuta il sacrificio degl'ebrei, dicendo esser il nome suo divino, grande fra le
genti et in ogni luogo offerirsi al suo nome oblazione monda, che d'altro non si può
intender che sia offerto a Dio in ogni luogo e da tutte le genti; diverse altre congruenze e
figure del Vecchio Testamento furono allegate, facendo fondamento chi sopra una, chi
sopra un'altra. Del Testamento Nuovo era addotto il luogo di san Gioanni dove Cristo
alla samaritana insegnò esser venuta l'ora quando il Padre sarà adorato in spirito e
verità, essendo che adorar nella divina Scrittura significa sacrificare, come per molti
luoghi apparisce; e la samaritana del sacrificio interrogò, che da' giudei non si poteva
offerir se non in Gierusalem e da samaritani era stato offerto in Garizim, dove allora
Cristo era. Onde per necessità, dicevano, conviene intendere il luogo d'una adorazione
esterna, publica e solenne, che altra non era se non l'eucaristia. Era anco provato per le
parole da Cristo dette: «Questo è il mio corpo che per voi è dato, che per voi è fratto;
questo è il mio sangue che per voi è sparso»: adonque nell'eucaristia vi è frattura di
corpo et effusione di sangue, che sono azzioni di sacrificio. Sopratutto era fatto gran
fondamento sopra le parole di san Paolo, che mette nel genere medesimo l'eucaristia co'
sacrificii degl'ebrei e de' gentili, dicendo che per quello si partecipa il corpo e sangue di
Cristo, sí come nell'ebraismo chi mangia l'ostie è partecipe dell'altare, e non si può bere
il calice del Signore, né esser partecipe della mensa sua, e bere il calice de' demonii e
partecipar della mensa di quelli. Ma che gl'apostoli fossero da Cristo ordinati sacerdoti,
lo provavano chiaro per le parole dette loro per nostro Signore: «Fate questo in mia
memoria». Per maggior prova erano addotte molte autorità de' padri, che tutti nominano
l'eucaristia sacrificio, overo con termini piú generali attestano che nella Chiesa si
offerisce sacrificio. Una parte aggiongeva appresso esser la messa sacrificio anco perché
Cristo nella cena se stesso offerí, e quella raggione portava per principale e provava il
suo fondamento prima perché, dicendo chiaro la Scrittura che Melchisedech offerí pane
e vino, Cristo non sarebbe stato sacerdote secondo quell'ordine, se non l'avesse offerto
esso ancora; e perché Cristo disse il sangue suo nell'eucaristia esser confermativo del
Nuovo Testamento, ma il sangue confermativo del Vecchio fu nella sua instituzione
offerto: perilché segue in consequenza necessaria che Cristo egli ancora l'offerisse.
Argomentavano ancora che avendo detto Cristo: fate questo in mia memoria, se egli non
avesse offerto, noi non potressimo offerire, e dicevano li luterani non aver altro
argomento per provar la messa non esser sacrificio, se non perché Cristo non ha offerto,
e perciò esser pericolosa quella opinione, come fautrice della dottrina ereticale. Piú
efficacemente era ancora provata per quello che la Chiesa canta nell'ufficio del corpo
del Signore, dicendo: «Cristo, sacerdote eterno secondo l'ordine di Melchisedech», ha
offerto pane e vino. E nel canone del messale ambrosiano si dice che, instituendo una
forma di perpetuo sacrificio, egli prima ha offerto se stesso ostia e primo ha insegnato
ad offerirla. Si portavano poi diverse autorità de' padri per comprobazione dell'istesso.
Dall'altra parte, non con minor asseveranza, era detto che Cristo nella cena
avesse commandato l'oblazione da farsi perpetuamente nella Chiesa dopo la morte sua,
ma lui non aver offerto esso medesimo, perché la natura di quel sacrificio non lo
comportava; e per prova di questo dicevano che sarebbe stata superflua l'oblazione della
croce, poiché per quella della cena precedente sarebbe stato riscosso il genere umano.

Che il sacrificio dell'altare fu instituto da Cristo per rammemorazione di quello che egli
offerí in croce, ma non si può ramemorar altro che cosa passata; perilché l'eucaristia non
poté esser sacrificio inanzi l'oblazione di Cristo in croce. Allegavano ancora che né la
Scrittura, né il canone della messa, né concilio alcuno ha mai detto che Cristo offerisse
se stesso nella cena; et i luoghi che gl'altri allegavano de' padri, questi mostravano
doversi intender dell'oblazione fatta in croce. Concludevano: avendosi a deliberare la
messa esser sacrificio, come veramente era, si poteva abondantemente farlo per le
efficacissime prove della Scrittura e padri, senza voler anco aggiongervi prove non
sussistenti. Questa differenza non fu tra molti e pochi, ma divise cosí i teologi come i
padri in parti quasi pari e fu occasione di qualche contenzione. I primi passarono a dire
che l'altra opinione era errore e chiedevano un anatematismo che gl'imponesse silenzio,
con dannar d'eresia chi dicesse Cristo non aver se stesso offerto nella cena sotto le
specie sacramentali; gl'altri in contrario dicevano che non era tempo di fondarsi sopra
cose incerte e sopra nuove opinioni, non udite e non pensate dall'antichità, ma doversi
star sopra il chiaro e certo, e per la Scrittura e per i padri, cioè che Cristo ha
commandato l'oblazione. Tutto il mese di luglio fu consumato da' 17 che parlarono
sopra i primi articoli; sopra gl'ultimi in pochi giorni si spedí piú tosto con ingiurie contra
protestanti che con raggioni. Non è ben narrare li particolari, se non alcuni pochi
notabili.
Nella congregazione de' 24 luglio, la sera, Giorgio d'Ataide, teologo del re di
Portogallo, si diede a destrugger tutti li fondamenti degl'altri teologi fatti per provare il
sacrificio della messa con la Scrittura divina; e prima disse non potersi metter in dubio
se la messa sia sacrificio, perché tutti i padri l'hanno con aperte parole detto e replicato
in ogni occasione, et incomminciò da' latini e greci della Chiesa antica de' martiri, e
passò di tempo in tempo sino a' nostri, affermando che nissun scrittor cristiano vi sia
che non abbia chiamato l'eucaristia sacrificio; però doversi concluder per certo che per
tradizione degl'apostoli cosí sia insegnato; la forza della quale è abondantissima et
efficacissima per far articoli di fede, come questo concilio ha da principio insegnato. Ma
questo vero e sodo fondamento veniva debilitato da chi ne faceva de aerei, volendo
trovar nella Scrittura quello che non si trovava, dando occasione agl'avversarii di
calunniare la verità, mentre che la veggono fondare in arena cosí instabile: e cosí
dicendo, passò ad essaminare ad uno ad uno li luoghi del Vecchio e Nuovo Testamento
portati da' teologi, mostrando che da nissun si poteva cavar senso espresso di sacrificio.
Al fatto di Melchisedech rispose Cristo esser sacerdote di quell'ordine quanto all'esser
unico et eterno senza precessore, senza padre, senza madre, senza genealogia: e di
questo farne troppo chiara fede l'Epistola agl'ebrei, dove parlando san Paolo al longo di
questo luogo, tratta l'eternità e singularità del sacerdozio, e di pane e vino non fa
menzione. Raccordò la dottrina d'Agostino, che dove è luogo proprio di dire una cosa e
non è detta, si cava argomento dalla autorità negativo. Dell'agnel pascal disse non
doversi presuppor per cosa cosí evidente che fosse sacrificio, e se alcun pigliasse
impresa di provar il no, forse converrebbe cedergli la vittoria; et ancora esser troppo
dura metafora a farlo tipo dell'eucaristia e non piú tosto della croce; lodò quei teologi
che, avendo portato il luogo di Malachia, gl'avevano aggionto quel di san Gioanni
d'adorar in spirito e verità, perché in vero formalissimamente l'uno e l'altro dell'istessa
cosa parlavano e scambievolmente si decchiaravano; non doversi far difficoltà sopra la
parola «adorare», essendo cosa certa che comprende anco il sacrificio, e la samaritana la
prese nel suo generico significato; ma quando Cristo soggionse che Dio è spirito e
conviene adorarlo in spirito, chi non vuol impropriare tutte le cose non dirà mai che un
sacramento, che consta del visibile et invisibile, sia puro spirituale, ma ben composto di
questo e del segno elementare; però, che volendo alcuno interpretare ambi quei luoghi
della interna adorazione, non potrà esser convinto et averà per sé la verisimilitudine,

essendo piana l'applicazione che questa è offerta in ogni luogo e da tutte le genti e che è
pura spirituale, sí come Dio è puro spirito. Parimente seguí dicendo che le parole:
«Questo è il mio corpo che per voi è dato, et il sangue che per voi è sparso», hanno piú
piana intelligenza se si riferiscono al corpo e sangue nell'esser naturale che nell'esser
sacramentale; come dicendo: «Cristo è la vite vera che produce il vino», non s'intende la
vite significativa, ma la reale produce il vino, cosí: «Questo è il mio sangue che è
sparso», non dice che il sangue sacramentale e significante, ma il naturale e significato è
sparso. E quello che san Paolo dice del participar il sacrificio degl'ebrei e della mensa
de demonii, intese i riti da Dio per Moisè instituiti e quei che da' gentili erano usati nel
sacrificare: non da ciò si prova l'eucaristia sacrificio; esser chiaro appresso Moisè che,
nei sacrificii votivi, la vittima era tutta presentata a Dio et una parte d'essa abbruggiata,
e questo era il sacrificio; del rimanente, parte era del sacerdote et il resto dell'offerente,
e cosí questo come quello lo mangiava con chi a lui pareva, né quel si chiamava
sacrificare, ma participar il sacrificato. I gentili immitavano l'istesso; anzi, la parte che
non era consummata nell'altare si mandava da alcuni a vendere, e questa è la mensa che
non è altare. Il piano senso di san Paolo è: sí come gl'ebrei mangiando la parte toccante
all'offerente, che è reliquia del sacrificio, participano dell'altare, e li gentili parimente,
cosí noi, mangiando l'eucaristia, participiamo il sacrificio della croce; e questo è a punto
quello che Cristo disse: «Fate questo in mia memoria», e quel di san Paolo: «Sempre
che mangierete questo pane e beverete questo calice, professarete il Signore esser per
voi morto». Ma per quello che si dice gl'apostoli esser ordinati sacerdoti per offerir
sacrificio con le parole del Signore, poiché egli dice: fate questo, senza dubio
s'intendeva quello che avevano veduto lui a fare; adonque bisognerebbe che constasse
prima che egli avesse offerto, ma non essendo questo certo et essendo le openioni de'
teologi varie e confessando ciascuno che l'una e l'altra è catolica, quelli che negano
Cristo aver offerto non poter concludere per quelle parole aver commandato l'oblazione.
Portò poi gl'argomenti de' protestanti, con quali provavano che l'eucaristia non è
instituita per sacrificio, ma per sacramento, e concluse che non si poteva dir che la
messa fosse sacrificio, se non con fondamento di tradizione; essortando a fermarsi in
questa e non render la verità incerta per studio di voler troppo provare. Discese poi alla
risoluzione degl'argomenti de' protestanti, et in quello rese tutti gl'audienti mal
sodisfatti, avendo recitato gl'argomenti con forza et apparenza e soggiongendo risposte
con debolezza, sí che piú tosto gli confermavano; il che fu ascritto da alcuni alla brevità
del tempo che gli restava, sopravenendo la notte, da altri al non sapersi lui esprimere, e
da' piú sensati, perché quelle risoluzioni non sodisfacevano lui medesimo: del che
essendo molta mormorazione fra i padri, Giacomo Paiva, un altro teologo portughese,
nella seguente congregazione replicò tutti gl'argomenti da quell'altro fatti e gli risolse
con sodisfazzione degl'audienti e con iscusare il collega, affermando che l'istessa fu la
mente sua. E gl'ufficii che dagl'ambasciatori e da' prelati portoghesi furono fatti in
testificar la bontà e sana dottrina del teologo ne' giorni seguenti, resero le menti de'
legati sincere verso di lui; però egli pochi giorni dopo partí, né si vede scritto ne'
cataloghi de teologi, se non in quelli che furono stampati in Brescia e Riva inanzi questo
tempo.
Il dí 28 luglio Gioanni Cavillone giesuita, teologo del duca di Baviera, parlò con
molta chiarezza sopra gl'articoli, rapresentando il tutto come senza difficoltà, non in
maniera d'essamine o discussione, ma con forma di mover gl'affetti di pietà. Narrò molti
miracoli succeduti in diversi tempi; affermò che dall'età degl'apostoli sino al tempo di
Lutero mai nissun dubitò; allegò le liturgie di san Giacomo, di san Marco, di san Basilio
e Crisostomo. Quanto alle opposizioni de' protestanti, disse che erano state a bastanza
risolute, ma anco senza quello bastava per tenerle fallaci il venir da persone alienate
dalla Chiesa, et in fine essortò li legati a non permettere che in qual materia si voglia

fossero proposti argumenti d'eretici, senza soggiongergli evidentissima risoluzione, e
chi non la sa portare, se n'astenga dal riferirgli, ricercando la vera pietà che le raggioni
contrarie alla dottrina della Chiesa non siano riferite se non preparando l'animo prima
degl'auditori con narrare la perversità et ignoranza degl'inventori, e che agl'argomenti
loro non vengono date orecchie, se non da genti di poco cervello; e poi narrandogli
quanto piú succintamente si può e senza le prove intermedie, soggiongendo la risposta
piana e ben amplificata, e quando pare che alcuna cosa gli manchi, portando la disputa
in altra materia, acciò non si generi qualche scrupolo negl'animi degl'audienti, massime
essendo prelati e pastori della Chiesa. Piacque grandemente il discorso alla maggior
parte de' prelati e fu lodato per pio e catolico, e che meritasse un decreto della sinodo
che commandasse cosí a tutti i predicatori, lettori e scrittori. Non però all'ambasciatore
del suo prencipe diede molta sodisfazzione, il quale, dopo la congregazione, in presenza
degl'imperiali che facevano complemento col teologo per la grata concione, disse che
veramente meritava d'esser commendato d'aver insegnato, anco nella semplecità della
dottrina cristiana, sapersi valer della sofistica.
Degl'ultimi teologi a parlare fu fra Antonino da Valtelina dominicano, il quale
sopra gli 6 ultimi articoli de' riti disse esser cosa chiara per l'istorie che ogni chiesa
anticamente aveva il suo rituale particolar della messa, introdotto piú per uso et a
giornata, che con deliberazione e decreto; che le picciol chiese si sono accommodate
alle metropolitane o vicine maggiori. Il rito romano, per gratificar a' pontefici, è stato
ricevuto in assai provincie; con tutto ciò restano ancora molte chiese co' suoi
differentissimi dal romano. Discese a parlar del mozarabo, dove intervengono e cavalli e
schermi alla moresca, che tutti hanno misterio e significato grande; e questo è tanto
differente dal romano, che se in Italia si vedesse, non sarebbe stimato messa. Che resta
ancora in Italia il rito milanese, molto differente in parti principalissime dal romano. Ma
esso romano ancora ha fatto mutazioni grandissime, le quali vederà chiaro chi leggerà
l'antico libro che ancora resta, inscritto Ordo romanus, e non solo ne' tempi antichi, ma
anco da pochi secoli in qua; affermò che il vero rito romano già da 300 anni non è
quello che adesso si serva da' preti in quella città, ma quello che dall'ordine di san
Dominico è ritenuto. Quanto alle vesti, vasi et altri paramenti, cosí de' ministri come
d'altari, non solo dalla lettura de' libri, ma dalle sculture e pitture vedersi li presenti esser
cosí trasformati, che se ritornassero i vecchi al mondo, non gli riconoscerebbono.
Perilché concludeva che il restringersi ad approvar li riti che la Chiesa romana usa,
potrebbe esser ripreso come una condanna dell'antichità e degl'usi delle altre Chiese, e
potrebbe ricever anco piú sinistre interpretazioni. Consegliò che s'attendesse
all'essenziale della messa, e che di queste altre cose non si facesse menzione. Tornò a
mostrar la differenza notabile del rito presente servato in Roma a quello che è descritto
nell'Ordo romanus, e fece, tra gl'altri particolari, grand'insistenza che in quello la
communione de' laici fosse con ambe le specie, e passò ad essortare a concederla anco
al tempo presente. Il discorso agl'astanti dispiacque, ma il Cinquechiese pigliò la
protezzione sua con dire che il frate non aveva detto cosa falsa, né si poteva imputargli
d'aver dato scandalo, perché non aveva parlato né al popolo, né ad idioti, ma in una
corona de dotti, dove nissuna cosa vera può dar mala edificazione, e chi voleva dannar il
frate per scandaloso o temerario, dannava prima se stesso per incapace della verità.

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